Mi
chiamo Sallustio, liberto di Primo Sabino Cato, duovirio di questa città. Sono
il suo scrivano fidato, tengo i conti in ordine per quanto è possibile e mi occupo dei suoi clienti. Quella
mattina però, fui costretto ad occuparmi d’altro.
Avevo trascorso una nottataccia,
disturbata da sinistri lamenti provenienti dalla strada. Il caldo mi costringeva a tenere il battente aperto e non tirava un alito di vento.
Quando all’alba, un urlo terrificante mi fece
saltare giù dal letto. Dalla finestra vidi un’ombra sgusciare furtiva lungo il
porticato del tempio di Pomona e sparire nell'ombra dell’edificio.
Fui
il primo a raggiungere lo spiazzo di sotto. Sul pronao oltre il colonnato vidi
Ambrosia, moglie di Licilius, flamine del tempio, che urlava e si strappava i
capelli. Le sue orribili maledizioni si riverberarono tra le insulae
circostanti, squarciando il silenzio del mattino. Mi avvicinai a lei guardingo;
Ambrosia era una donnona nota per il suo caratteraccio collerico e manesco.
Ai
suoi piedi c’era una veste, adagiata per lo scollo nella situla bronzea usata
per i sacrifici. Qualcuno vi aveva tracciato sul petto dell'indumento un numero: DL. Mi
accorsi che il recipiente era sporco di macchie brune, sangue pensai, ma poteva anche trattarsi d'altro. C’era anche
un piccione morto per terra, un nummo d’argento e un cilindro di piombo. In un batter
d’occhio il sagrato si riempì di curiosi e il mormorio iniziò ad alzarsi tra la folla.
«Che
succede qui?» tuonò come Giove adirato Gavio Martius, capo della milizia cittadina,
facendosi largo a furia di spintoni.
«Un
maleficio. È stata Diotima, la mia servetta» rispose Ambrosia con la faccia
paonazza, i lineamenti deformi e i pugni serrati, fissando però me con aria
minacciosa. In pratica la donna sosteneva che quella era la veste da notte del
marito e che Diotima l’aveva fatto sparire con un incantesimo per farle un
dispetto. Con una moglie del genere forse Licilius se l’era fatto da solo il
dispetto, riflettei.
«La
tua serva è pratica di magia nera?» le chiese Gavio accigliato per essersi buttato giù dal letto così presto.
«Quella
lì resusciterebbe anche l’uccello morto di mio marito.» rispose lei.
«E
di cosa ti lagni allora, donna?» ribatté il soldato.
«Forse
Diotima non ha bisogno di magia nera per quello» aggiunsi io.
La folla proruppe in una risata, ma bastò una
occhiataccia di Ambrosia per ammutolirla.
Ero perplesso.
Un uccello morto in
cambio di uno vivo; mi sembrò la spiegazione più ragionevole per quella
messinscena. Il nummo d’argento però era l’obolo per pagare l’untore in caso di
morte. Qualcosa non quadrava. E poi, l'ombra che avevo visto scivolare nel buio c'entrava qualcosa?
«Come
fai a essere certa che sia stata lei?»
«Al
mio risveglio Licilus non era nel letto e neanche lei era in casa, così ho
pensato che potessero essere al tempio. Li tengo d’occhio da tempo» mi rispose la
donna.
Ad
un tratto, tra le facce dei presenti spuntò quella di Diotima. I suoi occhi
impauriti vagarono qua e là, fino a incontrare quelli della sua padrona che,
non appena la vide, le si avventò contro come una furia. Il donnone aveva perso la ragione e sputava contumelie a più non posso. La fanciulla scappò veloce verso
il lavinaio, ma fu costretta a cambiare rotta, braccata dalla gente solidale con Ambrosia. La servetta riuscì a fare solo una decina di
passi con la folla alle calcagna; un energumeno l’afferrò per i capelli sollevandola di peso.
«Puttanella»
esclamò Ambrosia inferocita. Non appena le fu vicino le appioppò tre ceffoni micidiali. Se non fosse
intervenuto Gavio Martius, la moglie del flamine l’avrebbe ammazzata di botte.
Ritrovandomi
solo sul pronao, curiosai dentro il contenitore di piombo. Vi trovai un
pupazzetto con un ciuffo di peli appiccicati sul capo, un fallo in
terracotta di quelli che stanno appesi sulle porte dei lupanari e un ciondolo di piombo con sopra inciso un numero DL, uguale a
quello della veste.
Santi Numi, che storia è questa! Pensai.
"Mettiamola
alla ruota" urlò un tizio “Sì, alla ruota” gli fecero eco altri.
Diotima,
stordita dalle percosse, si guardava attorno terrorizzata; una serva accusata
di magia nera non si sarebbe salvata da morte certa. Mentre l’improvvisato
tribunale popolare stava discutendo della sorte di Diotima, sentii alle mie
spalle il portone del tempio cigolare. Nel voltarmi scorsi un’ombra che si intrufolava
all’interno di esso. Raccolsi la veste segnata
e penetrai nell’edificio. Un greve silenzio mi accolse. Tesi le orecchie e
cercai di adattare la vista all’oscurità. C’era una lucerna accesa nei
pressi della statua sacra.
«Licilius,
so che sei lì. Smettila di frignare, la faranno a pezzi.»
Nel silenzio del tempio echeggiò solo la mia voce, rimbalzando tra le file di colonne.
«Licilius accidenti a te, vuoi che faccia venire tua moglie? Non credo ti convenga ora.»
Il
flamine uscì dall’ombra del tempio. Ero un liberto e lui un sacerdote. Non
avrei dovuto parlargli in quel modo, ma non mi andava giù l’idea che quella
sventurata ci rimettesse le penne ingiustamente.
«Se
esco là fuori sono finito» disse protendendo le mani verso di me. Aveva un
volto cadaverico e gli occhi spiritati dalla paura.
«Scommetto che eri
tu quello che ho visto dalla finestra infilarsi dietro il tempio.»
Licilius si copriva la faccia con le mani, poi sollevò le braccia verso il cielo.
«Non scomodare gli déi e smettila di frignare.»
«Mi ammazzerà, il mio onore è compromesso.»
«Hai ancora le dita sporche di
porpora. DL non è un numero ma le vostre iniziali: Diotima e Licilius. Cosa avevi intenzione di fare?»
«Volevo
far credere a Diotima di essere morto.»
«Per intenerirla?»
«Le ho provate tutte,
mi rifiuta.»
«Allora
l’hai solo messa in una brutta posizione.»
«Sono
disperato e pazzo di lei.» disse Licilius tremando come una foglia.
«Un
incantesimo non ha mai conquistato il cuore di una donna. Lo sai che non puoi divorziare da Ambrosia.»
Non mi veniva in mente nulla che potesse salvare capre e cavoli. Le urla nel frattempo si facevano sempre più alte. Magari tutta quella gente avrebbe creduto volentieri a una storiella, la gente crede sempre alle storielle. Già, ma quale?
«Sei un sacerdote, ritrova il coraggio e dì loro che hai avuto una visione dell'ade... hai incontrato gli avi di tua moglie e hanno presagito che vivrà almeno per altri cinquecento anno, così spiegherai cosa significano quei segni sulla veste.»
«Non mi crederanno mai» provò a protestare.
Gli allungai la tunica e aggiunsi: «Vai pure, sei talmente pallido che nessuno
dubiterà di te se dirai di essere tornato dal mondo dei morti.»
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