14 ottobre 2020

La digestione

Per coloro che non mi hanno ancora conosciuto, mi chiamo Sallustio e sono il liberto di Primo Sabino Cato, senatore e duovirio di questa città. Faccio lo scrivano, tengo in ordine i conti e mi occupo dei clientes.
    Dovrei ricordarvi qualche altra cosuccia su di me, ma il Tempo dà sempre torto agli assenti, pertanto quando è ora delle fabulae, aprite bene le orecchie. Quella mattina mi ero svegliato con la testa che sembrava la fucina di Vulcano; un dolore atroce che mi prendeva dal collo e stritolava le meningi. Temisone, mio amico medico, consigliava un bagno alle terme per quel genere di malanni. A mezzogiorno, sbarazzatomi dell’ultimo cliente, un rompiscatole che non finiva di parlare, uscii finalmente di casa. Attraversai mezzo decumano inferiore, una strada fiancheggiata da un lungo colonnato: portici, empori traboccanti di merci e botteghe di spezie odorose. Lo schiamazzo della gente era insopportabile, per non parlare del frastuono proveniente dagli opifici; tutto rimbombava nella mia zucca come il rullio dei tamburi che accolgono i gladiatori nell'arena. 
    Il caldo e la calca erano opprimenti. A un barbiere chiesi delle terme e lui mi indicò il vicoletto alle sue spalle. Mi sentii sollevato mentre mi addentravo nel dedalo di viuzze e strectule, finalmente lontano da quell’alveare chiassoso. Svoltai l’angolo e dopo una ventina di passi mi ritrovai sotto una insegna di legno, con sopra disegnato un grosso fallo alato e dipinto con colori accesi.
    Forse il barbiere aveva capito male, fatto sta che capitai nel bel mezzo di una trattativa, tra una bagascia con due seni che faticavano a stare dentro il mammillare e un certo Tito Tittieno, uno squallido personaggio, disgustoso e orripilante; vendeva ai più infimi bordelli bambine ridotte all’indigenza, figlie di nessuno, adescate per strada in villaggi lontani; era la sua specialità. Tito stava cercando di convincere Clodia, la tenutaria, a comprare una fanciulla che teneva per la mano. Era una mulatta di sei, sette anni al massimo, aveva bellissimi capelli castani e un paio di occhi neri e grandi; confusa e impaurita si guardava attorno disperata.
    Solo chi ha attraversato i mille inferni come me, incatenato ai ceppi di una stiva che puzza di vomito ed escrementi, può comprendere cosa si provi ad essere schiavo, venduto e battuto a ogni capriccio del proprio padrone, scudisciato dall’alba al tramonto. Mi è andata bene dopotutto, i libri mi hanno salvato e a loro devo la mia fortuna, ma a quella ragazzina il Fato sembrava averle riservato la sorte peggiore che potesse capitare a una donna.
    «È un vero affare ti dico e poi è vergine.»
    «Tu che vendi vergini? Non farmi ridere.» Clodia guardò la sventurata con aria diffidente. Se non la comprava lei, a chi sarebbe andata? Venduta ad un postribolo più malfamato di quello probabilmente. Incontrai lo sguardo della fanciulla per un brevissimo istante; pietas imploravano quegli occhi.
    Pietas.
    Avevamo tutti noi  il cuore indurito da scene così; quando il dolore diventa ordinario, finisci per farci il callo e ringrazi il Fato per il Destino. Mi allontanai disgustato, avvilito e deluso da me stesso: che altro potevo se non girare la testa. Pensai alla mia Igina e a cosa le sarebbe accaduto se non l'avessi comprata io. Meglio andare alle terme. Non mi costò nemmeno l’obolo per entrare, giacché conoscevo il conduttore, Orazio il sannita, uno dei tanti clienti del senatore.
    Me ne stavo a mollo nel tiepidarium, con il capo abbandonato all’indietro e le braccia aperte sul bordo della vasca, ascoltando passivamente le chiacchiere di uno sconosciuto con una folta barba, riccia e nera. Il tizio, che sosteneva essere un mercante siriano di pietre preziose, narrava del suo lungo viaggio per mare, della nave e del tempo cattivo.
    Nel mentre il siriano parlava, osservavo il mosaico alle pareti; cascate d’acqua, fiumi tumultuosi, onde spumeggianti su un mare turchese, solcato da una nave maestosa che filava verso una città fortificata, sospinta da centinaia di remi. Un limpida luce filtrava dal lucernario e le tessere vetrose scintillavano in mille colori. Chiudendo gli occhi, mi apparve il viso della fanciulla e il suo sguardo implorante: Pietas. Non so dirvi come, sarà stato l’effluvio di parole del cliente siriano, ma finii tra le braccia di Orfeo e iniziai a sognare. Su quella nave diretta in città c’ero anche io, assieme ad altri sventurati della mia terra. Il comito urlava come un dannato, con il frustino in mano. Nerbate violente, nervose, voleva ammazzarci tutti se non vogavano al suo ritmo. Giunti nel porto ci sbarcarono come animali. Avevo la lingua gonfia per l’arsura, le mani piagate e le caviglie segate dalle catene.
    Ci ritrovammo ben presto circondati da una gran numero di soldati, armati fino ai denti e di uomini in tunica bianca e una benda davanti alla bocca che ci offrivano da bere. La confusione attorno a noi era terribile, mi sembrava di essere capitato in un mondo di un’altra epoca; navi di ferro, edifici giganti, scatole con le ruote senza cavalli che emettevano un ululato assordante, sfrecciando via come Mercurio.
    Sulla banchina, a cento da passi da noi, un folla minacciosa ci urlava contro, lanciandoci sassi e sputi: “Ributtiamoli a mare, tornatevene a casa, non vi vogliamo”. A dire il vero, neanche io avrei avuto piacere di vivere con gente simile, in un posto simile. Non capivo tutto quell’odio verso di noi; eppure erano stati loro a muoverci guerra, avevano saccheggiato il nostro paese, rubato i nostri tesori, la terra, ci avevano resi poveri e disperati ed ora volevano ributtarci in mare. Avrebbero fatto meglio ad ammazzarci assieme ai nostri figli.
    Vidi la fanciulla mulatta, condotta via da Tito Tittieno. “Non avere paura, mi prenderò cura di te” le diceva quel lestofante. Fummo fatti salire in una scatola di ferro e condotti via non so dove. Sentivo le urla della folla e i colpi che tiravano contro quella scatola ululante. La testa stava per scoppiarmi, quando ad un tratto mi destai, ponendo fine a quell’incubo. Ero rimasto da solo, dovevo aver dormito per una buona mezz’ora. Poco dopo vidi entrare Tito Tittieno, nudo come un verme e con la sua pancia rivoltante. Gli chiesi dell’affare. 
    «Benissimo, abbiamo festeggiato l’accordo con un pasto da re. Per Apollo, mi sento scoppiare il ventre.»  rispose ruttando.
    «Non c’è niente di meglio che un bagno freddo per digerire.» dissi io.
    «Non si inizia da qui?»  fece lui.
    «Hai mai iniziato il tiepidarium a pancia piena?»
    «No, mai!»
    «Appunto, per questa ragione si fa alla rovescia; il freddo compensa gli umori caldi della digestione.»
    Tito Tittieno mi ringraziò del consiglio. Lo vidi per l’ultima volta che si immergeva nel frigidarium. 
    «Che refrigerio» esclamò.
    «Che ti dicevo? Non muoverti da lì, tra poco ti sembrerà di essere nei campi Elisi.»

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