23 marzo 2022

Appuntamento con la vergine

Io sono Héctor

    Viceregno di Napoli, golfo di Salerno, primavera 1551. 

Héctor si svegliò convinto che neanche in paradiso, nel caso possedesse un mare di indulgenze, quell’incubo avrebbe avuto fine.  Si strofinò la faccia cercando di scacciare dalla mente quegli occhi grandi e neri della bambina, sempre la stessa, e l’immagine finale del suo abito risucchiato dal mare.
    C’era anche lui, affacciato dall’impavesata della nave a osservare quella scena, mentre un ciuffo di capelli spariva tra le onde. Provava inutilmente a gettarsi in acqua per salvarla, ma una mano lo tratteneva.
    Seduto sul bordo della branda, iniziò a frugare tra lecoperte in cerca del suo sacchetto di foglie. L’inferno lo attendeva, ne era certo, malgrado le assoluzioni. Era solo questione di tempo. Prima o poi avrebbe fatto i conti con Satanasso, nonostante avesse confessato i propri peccati
almeno un paio di volte, nella speranza di incontrare presto un sant’uomo che sapesse indicargli il cammino per la redenzione.
    Nel frattempo doveva accontentarsi della faccia baffuta e spigolosa di Francisco, il vecchio timoniere che lo chiamava dall’alto del boccaporto.
    «Capitano, una luce a un quarto di ponente...»
    «A un quarto di ponente...» ripeté.
    V’era stata un’incursione saracena alcuni giorni prima e quei dannati berberi avevano saccheggiato un villaggio, in cendiato alcuni casolari e fatto prigionieri una trentina diabitanti, soprattutto donne e ragazzine.
    Héctor s’allacciò il cinturone, indossò la giubba e intascò il sacchetto di foglie ritrovato sotto il cassone della branda. In coperta, l’aria fredda e umida lo destò del tutto. Il cielo era punteggiato di stelle, il mare si muoveva sonnacchioso e placido sotto una brezza che soffiava da tramontana.
    Scorse il timoniere lungo il corridoio di tribordo, aggrappato a una cima di trinchetto concentrato a scrutare il pelo dell’acqua. Era al suo servizio da diversi lustri, pilotando navi da un capo all’altro dell’oceano.
    «Il ragazzo alla coffa ha visto la luce di un fanale» disse indicando il punto con il cannello della pipa e il braccio teso.
   «Sembra scomparsa» osservò Héctor. Senza riferimenti e nell’oscurità era impossibile stabilire la distanza. Infilò una mano nella tasca della giubba e iniziò a frugare nel sacchetto con la punta delle dita. In genere le navi barbaresche navigavano coi fanali spenti, non è che si facessero annunciare, pertanto doveva trattarsi di qualcos’altro, una cocca forse, magari un brigantino. Afferrò una piccola quantità di foglie e se le mise in bocca. Il succo era amaro, ma il suo effetto era così rinvigorente da non riuscire a farne a meno.
    Se si fossero imbattuti in una galeotta berbera, con più uomini e armata d’artiglieria pesante, i suoi cannoni inglesi in ferro fuso da 28 libbre avrebbero potuto poco contro di loro; meglio filarsela a vele spiegate e dare l’allarme alla città. Se inseguiti potevano difendersi con le sole colubrine da 12 libbre disposte sulla poppa.
    D’un tratto apparve un punto luminoso. Rimase accesoper una decina di secondi e poi scomparve nell’oscurità.
    «L’avete vista?» esclamò il timoniere, «a una lega di distanza pressappoco...»
    «Uomini in coperta» gli ordinò.
    In un batter d’occhio il ponte si animò di ombre che si aggiravano attorno alle manovre, altre figure sbucarono dalla stiva, portando stracci, secchi e polvere da sparo e altre ancora accorsero verso di lui armate di archibugio, con le micce arrotolate attorno ai polsi e la spada al fianco. In tutto trentuno uomini di equipaggio, molti dei quali duri e spietati veterani del Perù, reduci di Cajarmarca, Algeri e Orano.
    Héctor rimase fermo con lo sguardo sopra il mare. Il capitano aveva un profilo regolare, la fronte spaziosa era solcata dalle rughe che diventavano brevi e marcate attorno agli occhi di color nocciola chiaro, quasi sempre immobili e apparentemente freddi.
    Eccola di nuovo la luce del fanale, questa volta era più intensa ed era apparsa chiaramente più vicina. C’era un’altra nave nei paraggi?, si domandò preoccupato di finire in un’imboscata.
    Che diavolo volevano dire quelle luci?
    Stava segnalando, si disse Héctor e prese a girarsi intorno. Da est un livido chiarore si rifletteva sull’acqua e il vento continuava a tirare dai quadranti settentrionali. Nel frattempo il fanale s’era spento, ma si poteva scorgere la sagoma della nave, che procedeva a tre quarti di mascone e una vela spiegata al vento. Pareva navigasse per lo scirocco pieno. Non era una feluca turca e neanche una fusta a remi da diciotto banchi, per fortuna. Qualunque cosa fosse, era meglio stare all’erta.
    «Uomini pronti alle manovre» informò il nostromo il capitano.
    «Tutte le vele spiegate e puntiamo su quel promontorio a nord ovest, se non cambia rotta la infiliamo di traverso con una virata» disse Héctor e rivolgendosi ai soldati ordinò di tenere le micce pronte e gli occhi aperti. Quel fanale che si accendeva e si spegneva proprio non lo convinceva. Mentre un gruppo di marinai levava l’ancora, un altro si diede un gran da fare con le cime di manovra, issarono l’antenna alla maestra e liberarono i legacci. Il capitano osservò la vela gonfiarsi e la prua iniziare lentamente a fendere le onde.
    «Mollate la scotta di dritta e il fiocco di prua» urlò Héctor, aveva bisogno di velocità se voleva anticipare la nave. Il Nibbio era una imbarcazione dal profilo basso e lo scafo affusolato; la vela latina, rinforzata con un fiocco, la rendeva più scattante, soprattutto quando navigava di sopravvento.
A quel punto, calcolando la luce e la distanza, anch’egli poteva essere stato avvistato dall’altro comandante. Héctor salì sul castello di prua dal quale impartiva ordini al nocchiere.
    «Stringi Francisco, tieni la prua così, voglio dare un’occhiata da vicino.»
    Il Nibbio iniziò a correre sull’acqua, inclinato di qualche grado sulla fiancata sinistra. Coperto un quarto di lega, il capitano ordinò all’equipaggio di virare. Con il vento preso ditraverso, la nave ritornò a fendere le onde con vigore.
    «Brigantino!» urlò il ragazzo dalla coffa.
    Héctor si spostò sul fianco destro del castello e gettò lo sguardo oltre l’asta del fiocco. La sagoma della nave si stagliava nitida, illuminata dalla rosea luce mattutina. Gli uomini in coperta avevano lo sguardo puntato sul brigantino, ora a meno di un quarto di lega. Niente insegne e non si scorgevano boccaporti per l’artiglieria.
    «Due alberi, ma sta navigando con una sola vela.»
    «Se bordeggiamo gli taglieremo la rotta con il vento in poppa» disse il timoniere.
    «Continua a stringere.»
    In quel momento il fanale s’accese di nuovo.
    «Sta segnalando, non c’è dubbio» fece Francisco.
    Il Nibbio intanto rosicchiava braccia su braccia, veleggiando di traverso. Héctor discese sul ponte e andò a prendere posto in mezzo ai propri uomini. Rivolse una rapida occhiata a ognuno di loro; gente che aveva combattuto assieme a lui e lo avevano seguito dalle Indie Occidentali.
    «Armate gli archibugi e gli artiglieri coi foconi pronti.»
    Il Nibbio navigava all’orza lunga e fu solo allora che al capitano balenò il sospetto, ripensando al fanale e alle luci, che quella nave avesse un appuntamento, quando all’improvviso esplose un colpo di cannone.
    «All’armi, ci tirano addosso» urlò Romero il biscaglino, posto a presidio della prua.
    Il proiettile sibilò nell’aria, sfilacciando l’olona della maestra a quindici palmi sopra la randa. L’equipaggio s’era gettato a terra, trovando riparo dietro alla balaustra. La seconda palla di cannone fischiò un istante dopo, sfondando il parapetto sotto l’albero di trinchetto. Schegge di legno volarono come proiettili, poi arrivò una scarica secca di archibugi.
    «Non sono berberi, ma senz’altro figli di puttana.»
    «Ai vostri posti» urlò Héctor senza perdere di vista il bersaglio.
    Il brigantino a quel punto cambiò improvvisamente rotta, con l’intenzione di scappare, ma il loro comandante aveva scelto male il tempo di manovra. Avendo le vele sgonfie la nave rimase in stallo,
esponendo la poppa e una parte della fiancata destra alle batterie del Nibbio che sopraggiungeva di traverso a meno di cento braccia di distanza.
    «Fuoco ora» tuonò Héctor.
    Una sequenza di tre esplosioni si susseguì a brevissimi intervalli. Una nuvola bianca eruttò dalle bocche dei cannoni e dalle canne degli archibugi, avvolgendo soldati e marinai. C’era un buco nella loro vela maestra e una parte del parapetto di poppa era stata completamente spazzata via. Si udivano le grida concitate dell’equipaggio e urla di dolore. Sul ponte di comando si scorgeva un uomo con una folta chioma, che sbraitava ordini come un indemoniato. Dipinta in vernice rossa campeggiava una scritta sulla prua: Vierge noire.
    Francesi di sicuro e contrabbandieri, concluse Héctor.
    Il Nibbio sfilò veloce dietro la poppa dell’avversario che sembrava guadagnare mare in fretta. Con il fiocco di mezzana spiegato, la Vierge noire si dirigeva verso sud.
    «Pronti a virare, ci sta scappando» urlò il capitano.
    Héctor non aveva alcuna intenzione di mollare la preda, ora che sapeva essere francese e per giunta armata. Il sole in tanto era spuntato e il chiarore dell’alba infiammava le acque del mare.
    «Rallenta, rallenta» urlò il ragazzo dalla coffa.
    «Forse imbarca acqua» disse l’artificiere Fernando Soto, con la faccia nera di polvere da sparo e pieno di santini e amuleti addosso. Il Nibbio procedeva di traverso rispetto al brigantino. Tutto l’equipaggio assisteva alla manovra di avvicinamento, i soldati con le micce accese e gli archibugi in mano, qualcuno con un morione in testa, altri con addosso corpetti di cuoio e corsaletti per proteggersi dalle coltellate. Anche il resto dei marinai era armato fino ai denti: asce, pugnali e spade corte, le facce tese e pallide, denti serrati, gli occhi sbarrati e un paternoster sulle labbra. Ognuno aveva un modo suo per affrontare la paura prima dell’assalto. A bordo di una nave, la battaglia era senza quartiere; sgozzare e pugnalare senza pietà, come diavoli, per non subire la stessa sorte.
     Il bottino faceva gola a tutti, solo che te lo dovevi guadagnare con il fegato e con il sangue.
    La Vergine Nera era sbandata su una fiancata; la maestra e la mezzana erano tese, ma la prua, inspiegabilmente agli occhi degli spagnoli, procedeva a stento. A bordo l’attività era frenetica; i marinai correvano lungo le corsie reggendosi alle cime, qualcuno dal cassero di poppa faceva ampi gesti verso il
    Nibbio in procinto di agguantarli. Sul pelo dell’acqua galleggiavano rottami, secchi, oggetti che la nave si perdeva nella scia. Sembrava incapace di difendersi almeno coi cannoni.
    «Fuoco dalla prua» urlò Héctor al biscaglino.
    Le colubrine esplosero all’unisono, un colpo centrò in pieno la fiancata aprendo uno squarcio nel fasciame. Il secondo proiettile andò ad impattare contro il dritto di prora, mentre il terzo sorvolò il ponte, precipitando in mare. Alcuni francesi rimasero feriti, qualcun’altro stramazzò sul colpo, mentre il resto dell’equipaggio fece partire una seconda scarica di archibugio. Nel volgere di pochi minuti la fiancata del Nibbio si trovò a trenta braccia di distanza dalla francese, mezza sbandata e quasi ferma.
    «Prepararsi all’abbordaggio, mano ai rampini» ordinò Héctor.
    Le urla dei francesi giungevano chiare alle orecchie degli spagnoli e per un istante parve a tutti di distinguere grida di bambini. Si udì persino la voce di qualcuno invocare la mamma. Gli uomini del Nibbio si guardarono l’un l’altro, sgomenti e increduli.
    «Mollate le vele» ordinò Héctor al resto. S’issò sul parapetto aggrappandosi a uno strallo, sguainò la spada e fece cenno ai soldati di tenersi pronti. Gli uomini al suo comando si lanciarono all’arrembaggio,
tra urla, bestemmie e figli di baldracche.
    Sul ponte della Vergine Nera regnava la più totale con fusione: corde, cime, barili, maniglie e altro ancora galleggiava sul pelo dell’acqua. La bordata aveva causato più danni di quanto Héctor aveva immaginato; c’erano due cadaveri riversi a faccia in giù, mentre un terzo era accucciato sotto l’albero maestro con una scheggia di legno nell’addome. Tre francesi tentavano la fuga verso la poppa con in mano gli archibugi, ma vennero raggiunti e fatti a pezzi dai fanti spagnoli.
    All’improvviso s’udì uno schiocco sordo e la nave iniziò a sollevarsi a prua, poi prese lentamente a capovolgersi. Héctor si tenne fermo al parapetto mentre gli oggetti attorno a lui precipitavano fuori bordo.
    «Stiamo colando a picco, capitano» disse Romero.
    Uno scricchiolio sinistro provenne dalla pancia della nave, seguito da urla agghiaccianti. C’era qualcuno nella stiva. La Vergine Nera compì una rotazione brusca di settanta gradi. Tutti gli uomini sul ponte scivolarono in mare ed Héctor si ritrovò sott’acqua circondato da rottami. Nuotò con il terrore di finire a fondo con la nave, impigliato in qualche cima. Alcuni istanti dopo, i superstiti la videro colare a picco, rivoltata sulla fiancata destra, esalando l’ultimo respiro con uno sbuffo d’acqua.
    Il timoniere aveva già disposto il Nibbio con la prua al vento e gettate cime lungo la fiancata della nave e la lancia di servizio per recuperare i compagni. C’erano tutti, qualche ferito ma nessuno ci aveva lasciato le penne.
    «Per tutti i diavoli, è andata giù come un sasso, niente bottino» disse un uomo della ciurma
    «Hanno aperto le sentine» fece un altro bestemmiando.
    Gli uomini erano delusi e il capitano fece girare diverse fiasche d’aglianico per stemperare la tensione e affogare la delusione. Il sole era ormai alto e i suoi raggi picchiavano sui volti bagnati e ancora tesi della ciurma. Héctor osservava la superficie dell’acqua costellata di rottami, barili e corpi dei marinai uccisi.
    «Contrabbandieri, puah» fece Francisco, «dannati francesi, c’è mancato poco» aggiunse stringendo la pipa tra le labbra.
    «Venite a vedere, ce n’è uno ancora vivo» urlò un marinaio dalla prua. Sotto l’asta del fiocco c’era un uomo aggrappato a una tavola di legno.
    Héctor diede ordine di tirarlo su, ma mentre lo stavano agganciando coi rampini, un abito da donna catturò la sua attenzione. Il corpo galleggiava a faccia in giù con le braccia aperte. Una lunga chioma si apriva a raggiera come i tentacoli di una medusa. Nascosta parzialmente dai rottami, riconobbe la pianta di un piede, candido e piccolo.
    Il capitano si passò una mano attorno alla gola, pensando al suo incubo interminabile.
    Ci vollero due ore per raggiungere la costa.
    Il cadavere seminudo della ragazzina venne adagiato sul ponte e la ciurma si radunò attorno per vedere. Non superava i dieci anni, aveva la pelle diafana e i capelli rossi.
    «Dannazione, potrebbe essere mia figlia, non ha nemmeno un pelo sulla fica» esclamò il timoniere.        «Che ci faceva con questa gentaglia?»
    Gettata l’ancora a cento braccia dalla riva, Héctor raggiunse la terraferma a bordo di una scialuppa.       S'inerpicò per il sentiero che conduceva alla torre della Carnale che si ergeva su un promontorio roccioso a sud est di Salerno. Attraversata la piazza d’arme si ritirò nel proprio alloggio e alcuni istanti
dopo qualcuno bussò alla porta.
    «Capitano, abbiamo trovato questo addosso al prigioniero» disse il marinaio mostrandogli un oggetto che sembrava una piccola borsa. Lo posò sul tavolo e se ne andò.
    Era una cerata portadocumenti, chiusa con un laccetto di cuoio. Dentro c’era una lettera sigillata con la ceralacca. L’umidità aveva incollato i bordi; c’era il rischio di danneggiare la carta se avesse provato a separarli. Gli altri due fogli invece erano integri. Il primo era una lista composta da una dozzina di nomi, con un luogo corrispondente e una cifra. Poteva essere una richiesta di riscatto; i pirati trafficavano in esseri umani. L’altro elenco invece conteneva setti nomi femminili dei quali era specificata l’età e la cifra, che oscillava per ognuno di essi da centotre a duecento ducati. Per un prezzo così alto, potevano essere destinate solo a certi bordelli.
    Pensò alla fanciulla dai capelli rossi, e alle altre finite al Creatore per mano sua.
 
                da IL FIORE DI MINERVA

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