25 settembre 2020

Il Coppiere

Oggi è un giorno importante per il padrone di casa, si festeggia la sua nomina a senatore e qui tutti fanno a gara per entrare nelle sue grazie. Finché i Numi ci assistono, ci sarà sempre qualcuno che busserà alla porta.
Mi chiamo Sallustio, sono un liberto al servizio di Primo Sabino Cato, duovirio di questa città. Dati i miei studi sono diventato scrivano personale del senatore, ma svolgo anche mansioni di sumptuarius, tengo in ordine i conti, redigo verbali e scrivo lettere da inviare al Senato di Roma. 
Potrei dirvi che gli dèi sono stati misericordiosi, che vivo sotto un tetto accogliente e non muoio di fame. Non mi spezzo la schiena come gli schiavi di questa dŏmŭs, questo è vero, non ricordo più il rumore dello scudiscio sulla pelle, ma sono costretto a sopportare altro, cose che dilaniano l’animo peggio delle bastonate.
Prima che si alzi il sole, tocca a me sbrigare la salutatio matutina, elargire la sportula ai più miseri clientes, in genere postulanti miserabili con la toga immacolata. Gli accattoni quasi mai vestono di stracci, ripeto a me stesso, anzi si ungono la pelle di olio profumato, indossano tuniche di lino e hanno calzari di cuoio rosso.
Di sotto si prepara il banchetto, niente di suntuoso. Cato è un uomo parco e oculato, come da buono romano: focacce di frumento e cacio, puls di farro, cavoli crudi conditi con olio e aglio, pesce e un po' di selvaggina. Sento il vociare della servitù, il rumore delle stoviglie, il profumo dei pesci arrosto e penso a lei, alla mia bella e adorata Igina, alle sue mani che preparano le vivande.
Vorrei scendere di sotto, abbracciarla e darle un bacio dietro al collo, ma non mi è consentito farlo, almeno pubblicamente. Igina è una schiava. Confesso che è stato amore a prima vista, non appena l'ho vista; era in un gruppo di prigionieri legati come animali. Impaurita, piccola come uno scricciolo, ma bella come la notte d’estate. Ha quindici anni, la sua pelle nera è come l’ebano levigato, gli occhi grandi come quelli di una cerbiatta. Siccome avevamo bisogno di una ancella per la nuova dimora, l'ho fatta comprare per dodici denari - sono i vantaggi di chi regge il cordone della borsa - e tutto sommato, il senatore non ha di che lagnarsi; lei è gentile, servizievole e ubbidiente.
E pensando a Igina stanotte non ho chiuso occhio. La ragione è molto semplice: il primogenito del padrone, Marco Gaio, è rientrato dalla Britannia dopo avere trascorso tre anni nelle fila della Legio Parthica come tribuno. Tre anni trascorsi a scannare barbari lo hanno trasformato in una statua di Marte, il corpo vigoroso e lo sguardo truce di un veterano. Suo padre l'ha convinto a candidarsi all'Ordo decurionum cittadino, primo passo verso la successione senatoriale. Marco è ambizioso, scalpita come il suo cavallo e soprattutto ha messo gli occhi sulla mia Igina. Gli basterebbe schiocchiare le dita per farla sua.
    L'elezione si avvicina, così devo aggiornare l’elenco dei clienti; gente furbastra come faine. Già li vedo fare la ruota attorno al padrone, a reclamare i meriti dei voti portati. Le elezioni sono sempre un buon affare; frumento, denari, commesse e persino appezzamenti di terreno. Omnia Romae cum pretio. Già, perché l’ultima consultazione ci è costata un patrimonio; voraci avvoltoi volteggiano attorno alla nostra dimora, e presto poseranno le loro laide zampe sulla tavola imbandita. Ma si sa, il potere esige il proprio prezzo e in questa Repubblica il popolo è chiamato al voto in ogni momento.
Ormai riconosco a prima vista i liberti come me, che cercano protezione per i loro commerci e gli intrallazzi. Ma il mio ex padrone ha bisogno ancora una volta di loro per l'elezione di suo figlio Marco.  Anche quest'ultimo ha bisogno di clientes, tanti clientes per accrescere la propria reputatio e non è nient’affatto schizzinoso - un soldato veterano abiutato a tutto. Da un calcolo, sono necessari centoventidue voti per farsi eleggere: ne mancano quaranta.
Ieri è venuto da me un certo Arcagato, uno sgradevole greco, cittadino romano e gestore della taberna unguentaria. Vende intrugli alle fattucchiere e filtri d'amore a vecchie matrone libidinose. Una volta mi ha cavato un dente gratis e ora pensa di essere in credito con me. Ha esibito l’elenco dei voti che sarebbe in grado di procurare, ma io so invece che è un delatore a pagamento. Purtroppo devo fare buon viso anche a lui e presentarlo al senatore come nuovo cliente. Ne arriveranno altri, pronti a saltare sul carro.
D’un tratto sento Igina che mi chiama. 
Nel mentre scendo le scale incrocio Trebello il coppiere, un giovane servo dall'aria enigmatica. Non smette di ammicarmi con quei suoi occhi da lupanare e le labbra tumide atteggiate a bacio; non ho ancora capito che appetiti sessuali agitino i suoi umori.
Di sotto trovo nuovamente il greco; ha un plico in mano. Trenta voti certi, mi dice, per cinque libbre di grano ciascuno e sei anfore di vino. Di sicuro ci farà la cresta sopra, penso tra me. Mi assicura che potrebbe persino ricoprire il ruolo di rogator, per raccogliere i voti e mettere di nascosto la crocetta sul candidato. È capitato alla scorsa votazione che due diriboteres siano stati trovati davanti a un postribolo con la gola tagliata; erano addetti allo scrutinio e un candidato li aveva pubblicamente accusati di avere truccato le tavolette.
Gli rispondo che non se ne parla: uno scandalo per un broglio nuocerebbe gravemente alla reputatio del senatore, rovinando per sempre la carriera del figlio. Arcagato è un tarlo fastidioso, con quella voce querula.
Igina viene verso di me, bella e luminosa. Dovrei affrancarla per poterla sposare, ma mi servono un bel po' di denari. Furtivamente sussurra al mio orecchio che stanotte il giovane padrone la vuole nella propria camera. È una schiava, deve ubbidire. Dentro di me sento la bile andare in fermento; è tornato allupato dalla Britannia, il nostro Marco Gaio. Potrei avvelenarlo prima di notte, durante i festeggiamenti. Magari piantargli un coltello nella gola, ma non sono fatto per certe cose.
Ci scambiamo uno sguardo carico di desiderio. Faccio finta di niente e l’allontano. Prendo il plico dal greco e lo fisso negli occhi.
«Sui voti sicuri non si sputa» osserva Arcagato con aria da furetto.
Scarto l’ipotesi del veleno. La prima a essere sospettata potrebbe essere proprio lei e gli altri servi della cucina.
«Ti serve un unguento profumato?» mi chiede Arcagato strizzando l'occhio verso Igina.
Gli rispondo che non ho bisogno di ungermi, ma mi viene un’idea.
«La notte non riesco ad addormentarmi.»
«Capita, giusquiamo in polvere, dormirai come un ghiro.» mi suggerisce.
«Non vorrai mica ammazzarmi?»
«Mi servi vivo. Te lo mando col mio schiavo» risponde strizzando l’occhio.
Accetto di visionare l’elenco ma non gli prometto nulla. Lui si accontenta, forse sperando di “ungermi” con il suo giusquiamo.
Lo accompagno alla porta e passando dalla cucina vedo Gaio Marco che allunga le mani su Igina, sotto gli occhi lascivi di Trebello il coppiere. Ritorno al mio scrittoio e perdo tempo sull’elenco del greco fino a quando il suo schiavo non viene da me.
Fuori si è fatto buio. Il banchetto è finito gli ospiti si sono scolati un'anfora di vino. Nella casa si sono spenti i rumori e le lucerne. Mi domando se Trebello il coppiere ha fatto ciò che gli ho detto; mi deve un favore e mi è sembrato felice di darmi una mano. Non riesco a chiudere occhio, sono agitato e penso a lei. Sento dei passi leggeri avvicinarsi. Di colpo la porta si apre. Igina si infila nel mio giaciglio, mi sorride e mi bacia con passione.
«È già tutto finito?» le chiedo.
«Ho trovato il suo letto già occupato.»
«Da chi?»
Lei mi guarda e divertita risponde: «Dal coppiere.»

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