13 settembre 2020

L'impellenza

II Parte 

Dovevano aver scoperto il cadavere, perché lungo la strada incrociai svariate volanti e almeno due posti di blocco: uno all’altezza dello stadio e un altro dopo il crocevia poco più avanti. Erano quasi le diciassette quando tirai lo scooter sul cavalletto. Presi la chiave e aprii l’entrata posteriore. Dopo aver rimesso a posto ogni cosa, iniziai a concentrarmi sul da fare. Nella sala centrale aleggiava il tanfo dei cuscini impregnati di fumo e di ogni sorta di odore. Di colpo vidi il titolare entrare dall'ingresso principale. Non era solo, dietro di lui c’erano due uomini in giacca e cravatta che lo seguivano.
    «Che ci fai qui?» chiese con irritazione e sorpresa.
    «Sostituisco il ragioniere.»
    «Prepara tre caffè, sbrigati» mi ordinò senza farsi domande. Era nero, glielo leggevo in faccia.
    Mi portai dietro al bancone e macinai una dose di caffè. Intanto i tre si erano accomodati alle poltrone che circondavano la pista da ballo. Le loro voci rimbombavano sotto il basso soffitto.          Trattenni il fiato, mentre guardavo il filo di crema riempire lentamente le tazzine.
    «Conosce quest’uomo?» sentii chiedere da uno degli sconosciuti. Il mio cuore iniziò ad andare su di giri.
    «No, non mi pare.» 
Riconobbi la voce del titolare, bassa e meno arrogante del solito. In genere si dava aria da manager, parlava come uno di quelli che hanno il mondo sulle spalle, trattando tutti con sufficienza. In quel momento però sembrava sulla difensiva.
    «Lo guardi meglio. È un rappresentante di bevande.»
    Mi girai e vidi che stavano osservando una foto.
    «Forse, ma nel mio lavoro incontro tanta di quella gente e rappresentanti!»
    Mi avvicinai con il vassoio e servii i caffè. Il titolare si rigirava la foto tra le mani e la fissava con aria corrucciata. Alzai la testa dal tavolino e vidi che uno degli sconosciuti aveva una pistola alla cintura. 
    «Ho visto una telecamera puntata sul piazzale.» disse l'uomo.
    «È l’unica e sola che abbiamo installato; è un posto tranquillo
    «Vorremmo dare uno sguardo alle registrazioni.»
    Il titolare mi fissò. Ripresi il vassoio e tornai al bancone.
    «Perché volete vedere il filmato?» chiese agli agenti.
    «L’omicidio è stato commesso a pochi isolati da qui, due traverse più avanti. Magari si è fermato al distributore di benzina qui dietro. Ogni indizio più essere utile in questo fase dell'indagine.»
    «Se non ci sono infrazioni e casini vari, le cancelliamo...» rispose il capo con la faccia indurita. Era chiaramente riluttante a dare il suo assenso.
    «Il delitto è stato commesso circa tre ore fa. Potremmo accamparci e aspettare l'autorizzazione del magistrato»
    Il capo afferrò al volo la minaccia e mi lanciò un mazzo di chiavi «Fai vedere tu, ne sei capace?»
    Lasciai il titolare e l’ispettore della Mobile per condurre il suo Vice nell’ufficio. Temevo potesse farmi domande imbarazzanti: ero in nero e senza copertura assicurativa, ma alla polizia non interessano i ragazzi che fanno i facchini e i camerieri per quattro soldi. Lo feci accomodare alla scrivania e accesi il pc. In un silenzio imbarazzato, aspettai che il computer macinasse i suoi bit. Dalla finestra era possibile osservare il piazzale; la volante era ferma e due agenti in divisa fumavano appoggiati sul cofano all'ombra di un gazebo pubblicitario. Sulla strada litoranea il traffico andava infittendosi. Al distributore di benzina una coda di vetture era ferma in attesa del rifornimento.
    Smanettai un po’ per scovare il programma tra i files e alla fine feci partire il video della giornata. Le immagini erano in bianco e nero e senza audio. Ogni tanto il Vice mi ordinava di rallentare, si avvicinava al monitor, poi faceva segno di proseguire. Passammo al vaglio un pezzo di circa tre ore a velocità doppia, andando indietro nel tempo, e infine alle 13:18:26 minuti, apparve la macchina: il suv. La targa era la stessa e si intuiva la vernice metallizata.
L’auto era entrata nel piazzale. Un uomo corpulento, in camicia bianca e pantalone scuro, era sceso e si dirigeva al locale. Alle 13:35:44 era ritornato alla macchina tracannando avidamente una bibita da un enorme bicchiere di carta, accompagnato da un tizio i cui abiti non lasciavano dubbi.
Il poliziotto non fece alcun commento. Mi disse di non toccare nulla, uscì all’aperto e scambiò due parole con gli agenti, poi rientrò dall’ingresso principale. Pochi minuti dopo fece piantonare un agente davanti all’ufficio e io invitato lasciare la stanza. 
La serata andò avanti senza altri sussulti. Il ragioniere mi rilevò quella sera stessa.
       «Lo sai cosa mi hanno trovato nelle feci?» mi domandò a bruciapelo il contabile. «Lassativo, potevo avere per collasso...Qualcuno me ne ha versato una bella dose. Se è per lo straordinario, beh, se lo sognano adesso, ma a quello stronzo, se lo becco di nuovo a purgarmi, gliela farò pagare, anzi cagare» disse. 
        Fece un sospiro sofferente, poi si informò su cosa era successo in sua assenza. Aveva il volto smunto e grigio; quando finì di ascoltare il racconto, si strinse nelle spalle e andò a sedersi meditabondo al proprio posto.
    Alle ventitré si fece vivo il capo. Era la prima volta che lo rivedevo dal pomeriggio. Si era cambiato d’abito ed era ancor più nero dopo che la polizia gli aveva portato via il pc dall’ufficio e messo i sigilli alla porta. Per il momento il locale era salvo, ma io ero il solo ad avere la certezza che presto non sarebbe stato così.
    A mezzanotte il locale era strapieno di gente e saturo di musica ad alto volume. Nella saletta riservata al telofono chiamai mio padre per sapere come stava. Mi annunciò che era stato in questura per la denuncia. Abbattuto era dir poco, sperai che non commettesse sciocchezze.
    Per tutta la serata non feci che pensare a mia sorella mentre, tra le luci, il fumo e i raggi laser, scintillavano i corpi semi nudi delle ragazze che si contorcevano attorno al palo. Non vedevo l’ora di rientrare; avevo le gambe pesanti per la stanchezza, eppure stranamente teso.
    Alle quattro del mattino era rimasto solo un gruppo di ragazzi, strafatti di canne e vodka che dormiva sulle poltrone. Il buttafuori li fece sloggiare a pedate e io finalmente ero libero di andarmene.
    Il ragioniere mi venne incontro sul piazzale con una busta in mano.
    «Da domani non venire più, ecco qui la paga di oggi.»
    «Perché?»
    «Hanno messo dentro il capo. È ai domiciliari e io non rischio per lui; sei a nero.»  
    «Capisco, grazie comunque.» gli risposi.
    Allacciai il caschetto e finii di sistemarmi lo zaino sulle spalle. L’aria della notte era fresca e le orecchie mi ronzavano forte. 
    Mi allontanai con i pensieri in subbuglio. Avevo messo tutto al posto giusto? Me lo chiesi almeno cento volte in quei quattro chilometri. Le chiavi erano consegnate, i cassetti in ordine e ora che l’ufficio era sotto sequestro niente poteva essere toccato. Non mi restava che aspettare le buone notizie.
    Vidi la luce sulla veranda e un ombra seduta sulla sdraio. Entrai in casa e raggiunsi mio padre: si era addormentato, sul tavolino c’era un cartone di pizza, avanzi e un bicchiere sporco di vino. Lo toccai sulla spalla e lui aprì gli occhi. 
    «Novità?» gli chiesi
    Mi sorrise e mi fece segno di abbracciarlo. «Avevi ragione, ho fatto bene a non andare a quell’incontro. Ci avrei rimesso la buonuscita e beccato forse un proiettile. Quel figlio di puttana è stato ammazzato. Ho riconosciuto la sua macchina in tv. Era una trappola per spillarmi denaro e non avrei comunque rivisto Alessandra. Se ci fossi andato, avrei corso il rischio di finire nei guai anch’io.»
    «Era lui il pappone?»
    «Sì. La Mobile ha trovato due cellulari, preservativi e tracce di cocaina nell’auto. È stato freddato mentre stava cacando, quel porco. Alcuni biglietti da visita lo mettevano in collegamento con il proprietario di un locale notturno, ora agli arresti domiciliari. In questo momento la polizia sta eseguendo un blitz.»
    «Tu come lo sai?»
    «Facevo il vigilantes, ho ancora qualche amico in questura. Il proprietario del locale ha confessato: gestiva in società con quello ammazzato un giro di ragazze squillo. Le adescavano nei locali, le drogavano e poi» si fermò che aveva gli occhi lucidi «Speriamo che con Alessandra…»
    «L’importante è che torni a casa» gli risposi. Poi mi versai del vino cercando di frenare la rabbia. Non chiusi occhio fino a quando il telefono di casa non squillò.
    Volammo all’ospedale ma non ce la fecero vedere. Ci dissero che stava bene ma che aveva bisogno di cure ed era sotto sedativo come le altre due. Così rimanemmo in sala d’aspetto.
    Mio padre mi svegliò portandomi un caffè. Teneva in mano un quotidiano già malamente stropicciato e una bustina di plastica tipica delle farmacie.
    «Il tizio è accusato anche dell’omicidio del suo compare, ma si è dichiarato innocente su questo. Hanno trovato una pistola nel suo ufficio, detenuta illegalmente. Ora tocca alla scientifica capire se dalla sua arma sia partito il colpo. Non ha alibi. Bella fregatura, sostiene di essere stato nel pomeriggio nel villino con le ragazze, ma erano tutte sotto l’effetto di stupefacenti. Nessuna di loro può confermare la sua versione.»
    «Dobbiamo stare vicino a tua sorella»
    «Si riprenderà, stai sicuro» gli risposi. C'era da rimboccarsi le maniche con lei, sarebbe stato un percorso lungo, ma ero convinto che Ale sarebbe uscita dal tunnel. Tutto sommato ero felice e fiducioso.
    Papà tirò fuori dalla busta una scatola di Guttalax «Questa storia mi ha scombinato la testa e la pancia. Ne avevo comprato una confezione due giorni fa e non lo trovo più. Mah?» disse con una smorfia di disappunto.
    Mi accorsi di sorridere compiaciuto; non immaginavo che un comune lassativo potesse essere così utile alla giustizia.
    «Il tipo che hanno arrestato, non è il tuo titolare?» mi chiese Lucio, mentre tentava di levare il tappo della medicina.
    «È il titolare di tutta la litoranea; spero marcisca in galera.» 
    Lo fissai un attimo poi gli tolsi la boccetta dalle mani. Lucio mi guardò con l'espressione di chi vorrebbe fare una ramanzina al proprio figlio, ma non ne è tanto convinto. Aveva un ghigno divertito sulle labbra.
    Abbassai la testa, svitai il tappo e gliela porsi.
    «Non esagerare con quella roba» dissi sorridendo, «troppo Guttalax fa male, può anche uccidere.»

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