Mi
chiamo Sallustio, liberto di Primo Sabino Cato, duovirio di questa città. Sono
il suo scrivano fidato, tengo i conti in ordine per quanto è possibile e mi occupo dei suoi clienti. Quella
mattina però, fui costretto ad occuparmi d’altro.
Avevo trascorso una nottataccia,
disturbata da sinistri lamenti provenienti dalla strada. Il caldo mi costringeva a tenere il battente aperto e non tirava un alito di vento.
Quando all’alba, un urlo terrificante mi fece
saltare giù dal letto. Dalla finestra vidi un’ombra sgusciare furtiva lungo il
porticato del tempio di Pomona e sparire nell'ombra dell’edificio.
Fui
il primo a raggiungere lo spiazzo di sotto. Sul pronao oltre il colonnato vidi
Ambrosia, moglie di Licilius, flamine del tempio, che urlava e si strappava i
capelli. Le sue orribili maledizioni si riverberarono tra le insulae
circostanti, squarciando il silenzio del mattino. Mi avvicinai a lei guardingo;
Ambrosia era una donnona nota per il suo caratteraccio collerico e manesco.